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La casa è di chi l’abita. Sulle occupazioni a Bologna, per una vita bella.

La casa è di chi l’abita. Sulle occupazioni a Bologna, per una vita bella.

Si sa, la vita da student*, soprattutto da fuorisede, non è cosa facile. Ancora di più se ti ritrovi in un’università che sembra provare gusto a farti vivere con l’ansia. Perché a Bologna, come è noto, trovare un alloggio è cosa assai complicata, e quando ne trovi uno, molte volte è un subaffitto, magari in nero, in una casa a dir poco indecente (e no, non è per fare gli schizzinosi). E così la “gloriosa” Alma Mater Studiorum di Bologna, invece di venire incontro a chi studia, decide molto saggiamente di tagliare le borse di studio andando a favorire, invece, le convenzioni per gli studentati di lusso come Beyoo o Student Hotel.

Così nascono le occupazioni che hanno caratterizzato Bologna negli ultimi tempi, a partire dall’occupazione temporanea proprio dello studentato Beyoo nel quartiere della Bolognina il 19 ottobre. Nasce proprio con lo scopo di dare alloggio a l* student* che una casa non ce l’hanno perché strozzat* da delle politiche universitarie e cittadine che puntano più al lucro che al benessere. Dopo pochi giorni di trattative negate, l* occupant* hanno lasciato lo studentato, ma assolutamente non per ritirare la lotta, ma perché nasce così, il 26 ottobre, l’occupazione di via Oberdan 16, in pieno centro città. Lo stabile appartiene per metà all’università, ma da dieci anni a questa parte nessun rettore lo ha destinato ad attività alcuna, lasciandolo in completo disuso e abbandono. Le richieste erano che l’inutilizzato dell’UniBo venisse destinato a chi studia in questa città e non ha un posto dove stare e che gli affitti fossero concordati, dimostrando subito una disponibilità al dialogo.

Da un comunicato dell* occupant*: “Lusso comune significa possibilità di esistenza e non di sopravvivenza, tramite cui pretendere: case, eventi, servizi, diritti. Ci spetta tutto, e ci spetta al massimo delle potenzialità che questo presente può offrirci. Ci spetta gratis, ci spetta subito, e non siamo disposte a fare passi indietro.” Si palesa quindi il fatto che quest’occupazione non è nata come completa risoluzione del problema, ma come spinta iniziale per una lotta più estesa.

La risposta dell’università? Il silenzio. O meglio, una dichiarazione di possibilità di dialogo, detta in maniera spiccia e quasi seccata. E dopo tre settimane di occupazione (nella quale si teneva anche uno sportello abitativo rivolto a tutt*), arrivano i manganelli. Il 17 novembre, alle 7 di mattina, via Oberdan viene svegliata dalle sirene e dagli anfibi degli sgherri del potere. Mentre qualcuno riesce a salire sul tetto dello stabile per resistere, altr* compagn* vengono tenut* per quattro ore dentro in stato di fermo, con una sorveglianza continua e coatta: mani sempre bene in vista, chi va in bagno lo può fare tenendo la porta aperta e con lo sbirro dietro a“sorvegliare”. Intanto, in strada, per chi viene per dare solidarietà arrivano i manganelli in testa, ma le due cariche a freddo non placano gli animi: dopo un breve corteo, si continua il presidio sulla via e nella piazza che si affaccia sul civico 16, che dura per otto ore. La risposta allo sgombero non consiste solo nella denuncia pubblica, anzi, viene alzata la testa ancora di più. Infatti, alle 18.30 si muove un corteo di persone decise a prendersi quello che è loro di diritto. Presa via Zamboni, fulcro della zona universitaria, al civico 38 (sede universitaria) viene occupata l’aula 6. L’occupazione è in un luogo strategico perché esattamente di fronte c’è l’ufficio del “magnifico” rettore Molari, il quale ripete la farsa: lo sgombero non dipende da lui, il dialogo è possibile. Si fanno promesse di miglioramento, si infantilizza una protesta giusta e decisa. Infatti, il giorno dopo l’occupazione segue un nuovo breve

corteo, che dopo aver girato per le vie della zona universitaria si dirige dentro al rettorato al fine di sostenere il dialogo promesso. Ma la porta è chiusa, e chiusa rimane nonostante la presenza di telecamere e stampa. Il rettore dimostra così l’assoluta noncuranza verso l’emergenza abitativa, decidendo solo di schierare la Digos a sorvegliare diligentemente. Anche qui, la polizia è l’unica risposta. Intanto l’occupazione del 38 rimane, ed è diventata la nuova sistemazione di chi, il 17 novembre, si è visto negato il diritto ad avere un letto e quattro mura in cui stare.

La situazione non è tuttavia nulla di nuovo né a Bologna, né nel Bel Paese. Nasce da un clima di repressione continua figlia delle politiche del PD e che ora stanno venendo esacerbate dal nuovo governo, quello a guida Fratelli d’Italia. Difatti, da mesi a questa parte gli sgomberi e i processi a compagni e compagne hanno avuto il palese obiettivo di mettere in ginocchio l’antagonismo dal basso, quello composto da persone che le situazioni di disagio le vivono o le hanno vissute.

In questo contesto le occupazioni diventano un mezzo non solo per resistere ma anche per creare nuove situazioni e contesti in cui si creano e si sperimentano modi di vivere alternativi a quelli annichilenti imposti dalla società capitalista. Proprio per questo il 19 novembre Bologna si sveglia ancora con un’occupazione nuova: il collettivo Infestazioni ha aperto uno spazio in via Stalingrado salvandolo dalla polvere e da un progetto “riqualificante” di affittacamere e Bnb, facendolo diventare un nuovo posto di auto-determinazione e, tra le altre cose, anche una sistemazione abitativa per un gruppo di compagn* senza casa.

Che le occupazioni diventino nuove basi di lancio per ogni tipo di lotta finalizzata non solo a combattere per i grandi temi del movimento bolognese e non, ma anche per dimostrare che una vita bella è possibile al di fuori delle impostazioni sociali che ci vogliono schiav* di un modello alienante e coatto.

Pietro P.

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